Quella casa in via del campo

Anche io ho vissuto per un breve periodo in questa casa: un piccolissimo appartamento al quarto piano senza ascensore di palazzo Paglierini, in via dei Leutari vicinissimo a Piazza Navona. Era l’anno in cui spararono al papa polacco e la cooperativa  teatrale di cui facevo parte metteva in scena,  al teatro Flaiano: “Opera” di Marco Mete con musiche originali di Eugenio Bennato. 
Il tugurio era lo studio di una pittrice assatanata di sesso  che aveva accettato di ospitarci - me ed altri due baldi giovanotti - probabilmente  aspettandosi di ricevere in cambio attenzioni che non ha mai ricevuto. La casa non aveva luce elettrica e bisognava attrezzarsi con le candele al calar della sera.

Sullo stesso pianerottolo erano stati ricavati altri due mini appartamenti  separati da pareti di cartongesso che ovviamente erano l’antitesi della privacy.  Ad abitarli erano:  una entreneuse che lavorava nei locali “in” della città e spesso concludeva le sue nottate lavorative in “ gloria”, allietando noi,  vicini e testimoni  nostro malgrado, dei suoi orgasmi multipli con tanto di gridolini e urti rumorosi della testata del letto contro la sottilissima parete. L’altro alloggio era abitato ufficialmente da uno steward dell’Alitalia, ma in realtà credo fosse lo scannatoio di un notissimo autore televisivo che spesso capitava di incrociare nelle strettissime scale. Varia umanità, insomma.

Sono rimasto legatissimo a quello scampolo di vita perché proprio lì,  in un brevissimo lasso di tempo, sono iniziate e sono finite due delle storie amorose più importanti della mia tarda adolescenza.
La prima terminava con un “Ciao” (della Piaggio) parcheggiato sotto casa e la visita lampo della donna che in qualche modo mi costrinse a voltare il cavallo bianco “e via per sempre nel tramonto” (cit). L’altra,  la prima notte con quella che poi sarebbe diventata la mia compagna di vita per quattro lunghi anni romani pieni di nostalgia del mio Piemonte. Il fantasma di Rossini non si è mai visto, ma strimpellare la chitarra alla luce di candela canticchiando le musiche dello spettacolo : “ E chest’aria fa accussì…laddosissì, laddosì…” aveva un suo perché, altrettanto crepuscolare e romantico.


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