Gino e la contessa

(1° premio - sezione racconto - al concorso letterario Villa Faieta. Fiumicino 12 marzo 2011)
E' verso la fine di marzo che le case e i cartelli gialli di sequestro dei vigili urbani ricrescono come funghi a Fiumara. 

Ognuno dei proprietari (o bonificatori come amano autodefinirsi) si danna l'anima per abbellire la sua abitazione: chi vernicia il muro di cinta, chi fa partire la betoniera per qualche modifica strutturale all'interno. Come se i freddi dell'inverno, ormai svaniti, dessero il via alla fioritura: nei viali del consorzio, le piante da giardino cominciano ad emanare i loro profumi. Nel mio, le calle, cresciute senza l' intervento di alcun pollice verde, la fanno da padrone. 

Aveva ragione Faber: " ...dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". Ai bordi delle strade nascono spontanei fiori. Ecco, vediamo il bicchiere mezzo pieno: se ci fossero delle strade decenti, senza buche, senza ristagno d'acqua, magari con l'asfalto, forse, i fiori non ci sarebbero. 

Ieri "la contessa", un omino segnato dagli anni e dalla sofferenza, omosessuale dichiarato (da qui il nomignolo), è venuto a bussare alla porta chiedendo dieci euro: "Mi si è rotto il motorino d'avviamento del furgone e sono tre giorni che non lavoro". 

E' stato uno dei più grossi ricettatori di Roma dagli anni '60 agli anni '80 ed ora, con 20 ore di ossigenoterapia al giorno, riesce a malapena a trascinarsi accompagnato dal suo compagno: un ragazzo arabo sulla quarantina, tossicodipendente, che gli ha prosciugato più volte le tasche. 

Una storia di galera e disperazione, la sua, come quella di tanti da queste parti. 

Si racconta che l'ultima volta che lo arrestarono per una storia di prosciutti, sì, proprio di prosciutti (ne aveva ricettato un autotreno), quando i carabinieri vennero per la perquisizione conseguente all'arresto, trovarono sì e no quattro cosci di porco. In compenso, tutta la Fiumara mangiava panini al prosciutto. Qui funziona così, non potrebbe essere diversamente. 

"La contessa" uscì otto anni dopo di galera e ringraziò Dio che gli fosse rimasta la casa. Ricominciò con una licenza da ambulante semiregalata dai servizi sociali. Attività che ancora oggi, quando il fiato lo consente, svolge a tozzi e bocconi. 

Gino, con la sua bicicletta sgangherata alla quale è posticciamente attaccato un carrettino fatto con quattro assi e due ruote rimediate in giro, pedala verso il mercato. Lì, cercherà di vendere le cianfrusaglie raccolte nei "secchioni della monnezza". Vive di questo, Gino. 





L'ho conosciuto quando mi sono trasferito a Fiumara. La mia casa era un cantiere, a causa dei lavori di ristrutturazione, e lui pensò di alzare qualche euro rubacchiando alcuni ferri da lavoro dei muratori. Fu subito identificato e preso col "sorcio in bocca". Fu allora che ci incontrammo, Gino ed io. Non fu una bellissima esperienza per lui. Gli feci restituire il bottino, facendogli capire che, da allora, se avesse avuto bisogno di qualcosa, avrebbe fatto meglio a suonare il campanello anziché saltare il muro di cinta. Così, tra uno strattone e una "pizza sul coppino", siamo diventati amici. 

Quando passa, in compagnia dei suoi inseparabili cani, mi saluta sbracciandosi e di quando in quando mi citofona per chiedermi una "carica de caffè" o qualche spicciolo, ma lo fa sempre con molta discrezione e mai in modo assillante. I servizi sociali del Comune non se ne fanno carico e solo la Croce Rossa gli fa dono, una volta l'anno, di qualcosa da mangiare che lui divide con la donna che lo ospita (allettata da anni e malata terminale). 
Allora tocca, ancora una volta, alla gente di Fiumara pensare a lui. Chi gli prepara i pacchi con la conserva di pomodoro o i barattoli di melanzane sott'olio fatte in casa, chi i vestiti smessi o qualche pacco di pasta e lui ringrazia, sempre gentile e discreto. 

Gino è di corporatura minuta, magrissimo (quando si mangia poco e male succede), con una vocina sottile che ricorda quella di un adolescente, un cappellino da baseball sempre in testa, barba e capelli arruffati, senza un dente in bocca. 

Quando lo si incrocia lungo la strada dritta che porta al vecchio faro è inconfondibile, col suo carrettino attaccato alla bicicletta e i suoi due cani che trotterellano a fianco. Ogni tanto la sua ospite lo caccia di casa in malo modo, forse in preda a crisi di dolore o chissà che altro. Lui non si perde d'animo: salta qualche recinzione delle case "estive" e si appisola sotto alle verande. Quando la cosa si ripete per più giorni, allora entra nelle suddette case (in un modo o nell'altro) e fa razzia di ciò che trova: scatolette di tonno avanzate dalla spesa estiva, barattoli di ogni genere di conforto e qualunque cosa di commestibile riesca a reperire. Tutti lo sanno e mi è capitato personalmente di sentire dei proprietari mugugnare, con un tono da cui traspare evidente la rassegnazione: "Questo è Gino". 

L'altro giorno, Gino ha avuto un diverbio con un arabo che vive da queste parti, sempre ubriaco fradicio. Non so perché, ma ogni volta che incontro Hamed mi vengono alla mente i popoli delle riserve indiane d'America, sterminati dall'alcol che gli uomini bianchi hanno insegnato loro ad "abusare". 
Il diverbio è nato dal fatto che Hamed accusava uno dei cani di Gino di averlo fatto cadere dalla bicicletta. In realtà, Hamed, in bicicletta, non sarebbe riuscito a stare dritto nemmeno se avesse avuto le rotelle e si è ripetuta una scena vista mille volte: una serie di rovinose cadute, lungo tutto il tragitto che il tapino deve compiere per arrivare a casa. 
Ma tant'è che stavolta Gino ci è andato di mezzo e si è ritrovato con quattro punti in testa per aver difeso il suo cane. "M'hanno spaccato la capoccia" mi ha urlato, passando davanti al mio cancello. Ho cercato di chiedere spiegazioni, ma lui era già lontano col suo carrettino. Non ho insistito, tanto non sarebbe servito a nulla. Gino è sordo come una campana. 


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